Vogliamo scrivere a più mani perché il lavoro che facciamo è un incrocio di mani, un prolungamento di intenzioni, una condivisione di obiettivi che tutti i giorni ci vedono protagonisti, osservatori e osservati, dell’abitare un luogo definito comunità. Prima di lanciarci nel limbo emotivo che caratterizza, da sempre, le professioni sociali, vogliamo far luce sugli strani abitanti della nostra struttura residenziale partendo dal presupposto che noi operatori sociali facciamo parte, a pieno titolo, di questa ridente e piangente combriccola.
La comunità alloggio per gestanti e madri con figli a carico CONTROVENTO è un contesto residenziale nel quale è possibile individuare, in un’ottica relazionale, un gruppo unico di individui che si interfacciano tra loro a diversi livelli. Se proviamo a fare una scomposizione graduale di questo gruppo unico, riusciamo ad identificare tre insiemi distinti di persone. Il primo è quello costituito dalle mamme/gestanti, il secondo dai bambini e il terzo dagli operatori. Questi sottogruppi di individui innescano al loro interno e tra di loro dinamiche complesse che, visivamente, possiamo associare alla base sommersa di un iceberg. L’esperienza pluriennale di comunità ci rivela che quanto più è grande la base sommersa, tanto più risulta difficile gestire la punta emersa di queste connessioni.
All’ équipe di educatori l’arduo compito di rovesciare l’iceberg facendo emergere quanto più possibile i significati relazionali, le alleanze e le discrepanze che, analizzate in superficie, possono fornire strumenti chiari di lavoro. Come facciamo a rovesciare l’iceberg? Dobbiamo partire da noi. Ciascuno di noi deve mettersi nella condizione di poter mantenere il proprio punto di vista affinché questo diventi risorsa per il gruppo e allo stesso tempo deve accettare di poter essere osservato, di essere messo in discussione per ripensarsi e per ripensare a strategie comuni e condivise di lavoro.
Dobbiamo essere disposti a mettere in gioco noi stessi perché il lavoro di comunità è essenzialmente confronto, ascolto e cura, caratteristiche che ci conducono in quel limbo emotivo di cui parlavamo all’inizio. Per interderci, la poltrona del nostro ufficio somiglia tanto ad un’altalena educativa di up e down sulla quale ci sediamo a riflettere sul come, quando e perché occorre raddrizzare il tiro, andare avanti, fermarsi, provarci ancora. Riflettere e sporcarsi le mani sono due elementi base del nostro lavoro che richiedono una condizione necessaria se non indispensabile: l’essere autentici. L’autenticità consente di rappresentarci per come siamo realmente per stabilire quanto più possibile alleanze emotive e professionali con gli utenti e i colleghi funzionali alla rimodulazione dei progetti d vita su cui ci viene richiesto di intervenire.
Lavorare con le mamme significa fare appello alla nostra capacità di essere presenti ma non ingombranti, di essere assenti ma non invisibili. Esserci al momento giusto per stabilire una relazione di fiducia che consenta di muoversi con la stessa andatura per raggiungere traguardi possibili.
Il lavoro di comunità è un lavoro di donne per altre donne e questo implica vissuti contrastanti sia nell’educatore che nell’educando perché si entra continuamente in contatto con storie di maltrattamenti, disaffezione, frustrazioni, abusi, violenze fisiche e psicologiche, povertà di valori e di stimoli o di modelli positivi da emulare. Storie che non ci appartengono, ma nelle quali ci ritroviamo ad entrare in punta di piedi nel tentativo di ricostruire un ruolo che, spesso, va oltre quello di madre e tocca le corde dell’essere donne e figlie. In questo campo minato da delusioni e sofferenze ci viene chiesto di condurre le nostre ospiti in un processo di maturazione di competenze educative ed emotive. Per farlo è necessario costruire rapporti di fiducia in cui noi operatori abbiamo il dovere etico di riconoscere l’altro come portatore di una diversità e di un vissuto da rispettare. Dobbiamo mantenere un atteggiamento non giudicante che consenta all’altro di esprimere il proprio background e tracciare una nuova strada da percorrere. Noi saremo al suo fianco per un pezzo di strada per sistemare l’asfalto, la segnaletica, la careggiata e il semaforo rotto nella speranza di raggiungere insieme il traguardo e poi fermarci a fissare l’altro allontanarsi da solo con un’andatura sostenuta e sicura. E a quel punto, una storia ci sembrerà chiusa, ma di fatto, andrà avanti senza di noi e risuonerà dentro di noi e in questo luogo per tutto quello che ci ha narrato.
A cura dell’èquipe socio-psico-educativa della comunità CONTROVENTO
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